di Marcello De Bonis
Qualche anno fa ero a Vienna, al Kunsthistorisches Museum. Chi visita musei enormi di questo genere di solito appartiene a due categorie: ci sono i veri cultori dell’arte, soprattutto nord-europei con pantaloni chino, camicia in lino e mocassini senza calze, in genere senza o con un solo figlio, che non fotografano le opere, e che dedicano almeno due/tre giorni alla visita di ogni museo; e poi ci sono le famiglie in vacanza, che spesso incastrano la tappa culturale – due o tre ore circa – intorno alle 15, tra la visita al Duomo, il pranzo al sacco e il momento shopping. (Categoria bonus: asiatici con macchina fotografica, ma quelli li trovate un po’ ovunque). Gli otto tra zii e cugini al seguito vi lasceranno intuire di quale macro-insieme facessi parte in quell’occasione.
In quella disciplina non riconosciuta ufficialmente che consiste nell’attraversare decine di stanzoni, cercando di osservare più opere nel minor tempo possibile, saltando gli ostacoli bagno e negozio di souvenir, per arrivare al traguardo prima che chiuda il museo, la mia strategia è quasi sempre la seguente: mi dirigo velocemente verso le ultime stanze da visitare, soffermandomi solo sulle opere maggiori, prendo possesso dei divanetti, accendo l’audio-guida e ascolto le descrizioni dei quadri mentre attendo il resto della comitiva. D’altronde se provate a chiedere a una persona, appena uscita da un museo del genere e inquadrabile in questa categoria di visitatori, quale opera gli sia piaciuta maggiormente, vi risponderà quasi sicuramente citando uno dei dipinti presenti nel dépliant pubblicitario della mostra. La nostra memoria a breve termine non è fatta per immagazzinare grandi quantità di informazioni in breve tempo. 😦
Mentre attraversavo le sale del Kunsthistorisches Museum a passo svelto, sentendomi un po’ Jude Law nell’intro di The Young Pope, gettando occhiate in ordine sparso e digitando compulsivamente i tasti sul telecomando dell’audioguida, fui costretto a fermarmi molto prima rispetto alla mia tabella di marcia: al centro di una delle sale c’era un pittore sulla sessantina con tavolozza e cavalletto intento a riprodurre (reinterpretandolo) un quadro già esposto. Piatto succulento per gli hipster a caccia di likes su Instagram da condire con l’hashtag #art. Ancora oggi è l’unico quadro che io ricordi di quell’esposizione, nessun altro capolavoro oltre a quel pittore sconosciuto che riproduceva un’opera di un’artista più famoso di lui, il quale a sua volta aveva messo su tela un’istantanea della realtà. Perché? Perché era reale, vera, qualcosa che stava accadendo davanti ai miei occhi: l’arte coniugata al present continuous. L’origine dell’arte è l’arte stessa direbbe Heidegger, l’essenza dell’arte consisterebbe nel porsi in opera della verità nell’ente. Il pittore, per quanto minore, stava diventando egli stesso un’opera esposta nelle sale della memoria degli spettatori. Delle centinaia di opere etichettate ed associate ad un determinato periodo storico-artistico ricordo l’unica sottratta alla sua pre-comprensione all’interno dell’estetica, della critica e della storia dell’arte.

L’anno scorso, invece, ero in Albania, più o meno con lo stesso gruppo e nello stesso periodo della vacanza a Vienna. Per una serie di (s)fortunati eventi non finimmo in un hotel 4 stelle costruito con denaro riciclato a Valona o a Saranda, ma a Duress. Durazzo marittima è una località neanche troppo arretrata dell’Albania, ma decisamente troppo indietro rispetto alle meno quotate mete delle Vacanze Italiane. E’ un posto dove la Coca-Cola non ha ancora battuto la Pepsi, le gente si reca in spiaggia su scassati pulmini anni ’80 (una giorno ho visto una famiglia ”parcheggiare” un mulo ultimo modello), la rete idrica è in funzione solo per poche ore al giorno e i cofani delle Mercedes sono più lucenti dell’acqua del mare. La spiaggia è una scacchiera di lidi con piscina e bar sul modello occidentale e stabilimenti balneari di fortuna, con ombrelloni e sdraio tutti diversi tra loro (di seconda, terza o n mano). È un melting pot di burqa, bikini, musica araba, reggaeton albanese e dei più famosi successi dance europei. Su questo mare tumultuoso di gente che nuota verso l’Occidente con ai piedi le zavorre delle tradizioni sventola bandiera rossa, ma con aquila bicefala.
Dopo due giorni di mare scoprii che a pochi metri dal lido c’era una canale fognario e decisi che non mi sarei più recato in spiaggia. Il giorno dopo ero a Tirana, alle 11 sul monte Dajt, alle 17 in piazza Scanderberg, alle 19 allo Stadio Selman Stërmasi: si giocava Partizani Tirana-Sheriff Tiraspol valida per i preliminari di Europa League 19/20.
Lo stadio Stermasi è il secondo stadio di Tirana (il primo è l’Air Albania, costruito seguendo il moderno modello inglese, con hotel e centro commerciale al suo interno, che ospita le partite della nazionale, nato dalle ceneri dello stadio Qemal Stafa, costruito durante il periodo del regime fascista italiano in Albania) ed ospita le tre realtà più importanti del calcio albanese: KF Tirana fondato nel 1920 e sostenuto esclusivamente dai ‘tiranas’ (la popolazione della città), ex 17 Nentori Tirana (il nome della squadra dal 1947 al 1949, che commemorava la liberazione di Tiarana dai nazisti, avvenuta il 17 novembre 1944); Dinamo Tirana, fondata nel 1950 e sostenuta dal Ministero dell’Interno sotto il regime di Hoxha; Partizani Tirana nato nel 1946 e finanziato invece dal Ministero della Difesa.
Il fascino del calcio balcanico consiste nell’incredibile legame con la storia, la politica e la società nei diversi periodi storici. Gli scontri tra Deljie della Stella Rossa e i Bad Blue Boys della Dinamo Zagabria furono il preludio alla guerra tra Serbia e Croazia. Personaggi come Franjo Tuđman, Arkan, Milosevic, arruolavano i guerriglieri anche nelle fila dei gruppi di tifoseria organizzata. Proprio dallo storico gruppo di ultras di Belgrado traggono il proprio nome i Blue Boys della Dinamo Tirana. E questo intricato groviglio di interessi economici, politici e sociali coinvolge anche molti dei dirigenti delle squadre. Nell’organigramma del Partizani ad esempio c’è Luciano Moggi nel ruolo di consulente, Olsi Rama nel ruolo di direttore sportivo, fratello di Edi, personaggio controverso accusato di aver pilotato il drone con la bandiera albanese dalla Vip Box durante la partita Serbia-Albania valevole per la qualificazione agli Europei del 2016 e di essere implicato in una truffa di società di Call Center. Il presidente del Partizani, Gazmend Demi, fu accusato dall’ex primo ministro Berisha di essere coinvolto nella criminalità organizzata e di intrattenere rapporti con Saimir Tahiri, condannato nel 2019 per collusione con la mafia italo-albanese. Nel 2004 l’ex presidente del Tirana Albert Xhani fu arrestato per truffa e qualche settimana prima anche quello della Dinamo per evasione fiscale. D’altro canto la squadra di Tiraspol che rappresenta la Transnistria, dichiaratasi indipendente dalla Moldavia e bloccata nell’epoca dell’Unione Sovietica, fu fondata da due ex membri del KGB. (ma questa è un’altra storia).
In fila al botteghino conosco due ragazzi albanesi, uno studia archeologia, l’altro tifa Milan. Entrambi parlano bene italiano e mi aiutano con il biglietto. Con 5 euro mi assicuro l’ingresso e due lattine da 500 cl di birra Peja. Prendo posto in gradinata ed inizio ad osservare le varie opere d’arte esposte nello Stadio Selman Stërmasi (Mueseum), mentre le due audioguide mi raccontano aneddoti sul Partizani e sull’Albania: tasto 1, parata plastica di Alban Hoxha, portiere di culto del Partizani e della nazionale albanese, nel 2016 calciò il primo rigore contro il Ferencvaros nei preliminari di Champions, segnando col cucchiaio e parò i tre successivi, assicurando la qualificazione alla squadra di Tirana; tasto 2, un bell’anticipo di Eneo Bitri, che si ispira a Thiago Silva ed è discretamente bravo con i piedi; tasto 3, sguardo stizzito verso la tifoseria di casa di Laridion Latifi, ex Skënderbeu (squadra condannata per illecito sportivo nel 2017) pesantemente fischiato e insultato per buona parte della partita, in quanto albanese ma militante nello Sheriff; tasto 5, volto corrugato di anziana donna con semini di girasole; tasto 6, canzoni incise dagli Ultras Guerrils durante la pausa tra primo e secondo tempo. Sposto lo sguardo da un dettaglio ad un altro, come nel Kunsthistorisches Museum, cercando di stare al passo della performance artistica in continuo divenire, aspettando quel pittore sulla sessantina con tavolozza e cavalletto che avrebbe potuto sublimare il momento.
Sul finire della partita il sole tramonta, come i sogni di Europa del Partizani (che perde 0-1), le maglie rosse dei tifosi si fondono con l’arancio del cielo e con la bandiera di Che Guevara a bordo campo. Per qualche minuto tutto è perfetto: è l’acme della performance artistica. Ormai il campo non si vede neanche più, il sole punta dritto negli occhi, ma non importa. Ciò che conta è essere lì, mentre 22 pittori sulla sessantina con tavolozza e cavalletto esprimono in gesti i loro pensieri, e, ispirandosi ad artisti più grandi di loro, ridisegnano quadri visti milioni di volte, ognuno con una tonalità un po’ diversa.
Poi il triplice fischio. Qualcuno urla un italianissimo Vaffanculo a Franco Lerda, che sarà esonerato tre mesi dopo. L’opera è completa, gli artisti lasciano il campo e io lo stadio, con un nuovo quadro ad arricchire la Galleria d’arte dei miei ricordi. Prendo il taxi, torno a Durazzo. Mi torna in mente una foto scattata la mattina sul monte Dajt: una farfalla posata su un fiore, cresciuto vicino ad uno dei 300000 bunker fatti costruire ovunque da Hoxha (questa volta Enver).
Di sicuro Bitri non è Thiago Silva e il pittore del Kunsthistorisches Museum non è Caravaggio, ma ci sono diamanti nel fango.
